Extimité. La cura del dentro che abita il fuori

Extimité. La cura del dentro che abita il fuori

Arci Torino     13-10-2025

Extimité. La cura del dentro che abita il fuori è un'autoinchiesta su quattro circoli Arci di Torino – Casa Fools Teatro Vanchiglia, Kontiki Torino, Laboratorio MalaErba, Circolo Arci Sud – firmata da Roberto Vietti, Roberta Rosati e Luca Greco.

Perché sempre più circoli non si limitano al “dentro” e scelgono di prendersi cura del “fuori”? Cosa significa prendersi cura dello spazio comune, anche al di fuori delle mura del proprio circolo?
Uno sguardo su pratiche e scelte che trasformano lo spazio pubblico in luogo di relazione e partecipazione: perché prendersi cura non è neutro, significa esporsi, negoziare, fallire. Ma anche creare socialità, visibilità e affezione.

L'inchiesta Extimité. La cura del dentro che abita il fuori si può scaricare gratuitamente a questo link.

 

Un estratto dall'introduzione, a firma di Luca Bosonetto di Arci Torino:

Durante il primo decennio dalla crisi economica iniziata nel 2008 (e arrivata in Italia l’anno  successivo), la locuzione-mantra social innovation aveva invaso progetti, bandi, politiche  pubbliche. Molte realtà, volenti o nolenti, si trovavano ad adeguarsi a un modello spesso  distante dalle loro identità e tradizioni (la cooperazione sociale, il volontariato, il mutualismo)  per acquisire una postura votata all’efficienza, spendibile, sostenibile, rispondente a,  produttiva, cool, e non ultimo - come oggi alcunɜ teoricɜ di quegli anni ammettono -  pericolosamente neutra del punto di vista politico. Bisognava trovare soluzioni innovative,  smart, (ri)generative, collaborative - e chi più ne ha più ne metta, bastava costassero meno -  per sopperire al vuoto di servizi, welfare e offerta culturale lasciato dal retrocedere del  pubblico e dalla crisi (anche auto-inflitta) delle organizzazioni di massa, dei corpi intermedi e  collettivi, specie di natura politico-ideologica.

A complicare (o a giustificare) questa necessità, il ciclo di crisi finanziaria/recessione  economica più grave dal 1929 e la conseguente mancanza di risorse sia nelle casse dello  Stato sia nella tasche delle persone. Insomma: se il Comune non aveva più fondi e partiti,  sindacati, parrocchie e associazioni si erano svuotati di volontariɜ e militanti, chi si sarebbe  occupato dei dopo-scuola, in questi inaspettati tempi di magra? E della cura dei giardinetti?  E dell’invecchiamento attivo di una popolazione sempre più anziana? E di sport popolare? E  di teatro e arti amatoriali? La social innovation! Proposta, come risposta a fenomeni che  andavano ben oltre la portata di una piattaforma teorica di project design, per quanto  brillante, insufficiente a tamponare trend mondiali, culturali, finanziari.

Ed eccoci alla nuova generazione di spazi culturali.

Pressoché ovunque in Europa - e soprattutto nel bel Paese del campanile e della casa del  popolo - iniziava a risultare evidente che nuovi modi di fornire servizi, cura e intrattenimento  non potevano prescindere dall’esistenza di luoghi in cui le persone potessero organizzare la  loro disponibilità di tempo, idee e risorse. Spazi fisici, al riparo da caldo, freddo, sguardi e  rumori indesiderati, in cui ritrovarsi ed escogitare contromisure creative ai complessi tempi  che correvano (e ancora corrono). Testimonia questa tendenza - oltre alle ricerche più o  meno accademiche - l’avvento, nel lessico delle politiche pubbliche e non solo, di parole  come “riqualificazione”, “spazi rigenerati” a fianco delle ormai sdoganate terminologie del  project management.